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CAPITOLO 3
Il cedimento
Una novizia le fece strada accompagnandola fino al suo ufficio e, dopo aver bussato e aver avvisato Don Ettore del suo arrivo, chiuse la porta e li lasciò ai loro impegni.
«Buon pomeriggio, di quale ordine voleva discutere?», tentava di mettere a tacere le voci contrastanti nella sua testa, tra chi le consigliava di andarsene subito e chi le ricordava che stava svolgendo il proprio lavoro.
Con un paio di falcate l’aveva raggiunta, una mano sul fianco e l’altra dietro la nuca, la baciò d’impeto, spingendola bruscamente contro il muro.
Si ritrovò schiacciata tra lui e la carta da parati senza alcuna volontà di ribellarsi. Restituì baci e carezze e si scoprì a desiderare di sentire la sua pelle contro la propria. Non ebbe tempo e necessità di formulare a voce il proprio desiderio che lui le stava già sollevando la blusa saggiando la consistenza del suo seno.
Più la toccava e più lei scollegava il cervello, la testa le vorticava pericolosamente, tanto da non fermarsi neppure al pericolo reale che qualcuno aprisse la porta e li scoprisse in atteggiamenti equivoci. Equivoci?! C’era ben poco da equivocare.
La gonna sollevata e le mani alla ricerca della biancheria intima, trovarla e spingerla di lato fu un tutt’uno, così come raggiungere la sua intimità, prenderne possesso e accarezzarla e stringerla e farla fremere.
Non sapeva nemmeno come c’era riuscita, ma aveva sollevato la tonaca e raggiunto la cintura dei pantaloni. Fra un gemito e l’altro era riuscita a calarli e si erano ritrovati a muoversi convulsamente l’uno dentro l’altra, gemendo e sigillando ogni lamento tra i baci a lungo trattenuti.
Al culmine della soddisfazione avevano riaperto gli occhi e si erano guardati, entrambi esterrefatti dalla passione a cui avevano ceduto, imperlati di sudore e con l’odore dell’altro impresso sulla pelle.
L’accarezzò sulla guancia, lasciò libero il suo corpo dall’ingombro del proprio e si girò per rivestirsi.
CAPITOLO 4
Il rimedio a ogni errore
Se lo era ritrovato al pianerottolo e il cuore aveva scordato di battere. «Che ci fai qua?», riuscì a chiedere in un soffio.
«Mi fai entrare?», lo sguardo basso e una mano intenta a grattarsi la nuca, «Ti prego».
Girò la chiave nella toppa e gli fece cenno di accomodarsi.
Gli indicò una poltrona e si recò nel cucinino per lasciare i sacchetti della spesa. Tornò con un vassoio su cui aveva sistemato dei bicchieri e delle bibite che posò sul tavolino di fronte a lui.
Gli versò da bere un analcolico e gli chiese «Cosa sei venuto a fare?», consapevole del tono agitato con cui aveva posto la domanda.
«Non lo immagini?», mandò giù un sorso mentre osservava l’ambiente in cui si trovava, era piccolo ma in ordine, quasi spoglio, con mobilia ridotta all’essenziale, nessuna fotografia in giro o souvenir, suppellettili o qualsiasi altro oggetto che potesse fornire particolari riguardo alla personalità o ai gusti della padrona di casa.
«Non è il caso di farne un dramma, possiamo fingere che non sia accaduto nulla e…».
Non le diede il tempo di terminare la frase, «Se fosse così semplice non sarei qui».
Si sollevò di scatto, «Ok, questa conversazione non è di alcuna utilità, per favore vattene via», e così dicendo si avviò verso la porta.
La raggiunse allo stipite dell’arco che divideva idealmente l’ingresso dal soggiorno. L’abbrancò con un braccio mentre l’altro si appoggiava al muro. Le afferrò i polsi che si erano appoggiati alla parete e la tenne bloccata mentre le labbra si agitavano sul suo collo e una voglia smisurata di averla ancora montava senza trovare ostacolo.
«Dimmi che devo smetterla», una preghiera sussurrata al suo orecchio, mentre la lingua contornava il lobo e lo succhiava avidamente, «che è solo una follia»; le mani che scorrevano lungo i fianchi e sollevavano la veste «dimmi che vuoi che me ne vada». Il corpo addossato contro la sua schiena e un movimento flebile con cui iniziava a insinuarsi dentro di lei.
«Vuoi che menta?», rispose ansimando.
Di come finirono nel suo letto non ne conservarono memoria.
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