Ciao a tutti!
Oggi scopriremo insieme l’India con Antonio Ortoleva, giornalista professionista e autore di libri-reportage. Già direttore del notiziario di Radio Cento Passi e docente a contratto di giornalismo presso l'università di Palermo, ha viaggiato in tre continenti. Oggi vive a Catania, sua città di origine…
F.P: Antonio buongiorno, iniziamo quest’avventura in terra indiana per scoprirne tradizioni e particolarità. Com’è nato il tuo amore per l’India? Qual è stato il tuo primo approccio con questo Paese così vasto e popoloso?
A.O: “Per caso, comunque non prefissato. Nove anni fa m’invitarono amici cari che vanno da sempre anche per lavoro: “Beh, una volta dovrai venirci”. Risposi: “Why not?”. E fu incantamento. Scoprii che in India non avere nulla non è differente dall’avere tutto. Sei benestante e cosciente che nella prossima vita potresti reincarnarti all’interno di una famiglia che vive in strada. L’india ti spinge a convivere, in serenità inaudita, con ogni avversità”.
F.P: Nel tuo libro reportage “C’era una volta l’India e c’è ancora” affronti vari aspetti della cultura indiana. Quali ti hanno maggiormente colpito o affascinato?
A.O: “Prima di tutto le Grandi Anime. Ci sono figure che hanno scosso il mondo. Il Mahatma Gandhi vive nella coscienza del Paese, guidò all’indipendenza dall’impero inglese senza mai sparare un colpo, spargendo semi della non violenza nel globo. Nelson Mandela è fratello e figlio, come il poeta Tagore, il primo Nobel non occidentale con la sua celebre meraviglia del creato. Non trascuro l’influenza di Osho Rajneesh o di Yogananda con discepoli in tutto il mondo. E gli scrittori attirati da ogni dove, da Hermann Hesse e il suo Siddharta, a Pasolini, Manganelli e Tabucchi dall’Italia, Lapierre e la sua città della gioia, né Tiziano Terzani che imperturbabile si accinse, ammalato di tumore, a morire sull’Himalaya dove si era ritirato. Le loro parole hanno lasciato sedimenti profondi”.
“C’era una volta l’India e c’è ancora” Antonio Ortoleva
F.P: Andare in India, disse Jung, è come andare allo specchio, un incontro con il proprio inconscio. Perché proprio l’India e non un altro Paese asiatico? Cosa nello specifico rende questa terra un luogo ideale per ritrovare sé stessi?
A.O: “Hai fatto bene a citare Jung, lui sostiene che davanti al proprio specchio, se non sei pronto, scappi via oppure la tua vita cambia. L’India rappresenta in questo senso una finestra aperta sulla nostra psiche, un momento privilegiato di indagine interiore, anche se non sei cosciente che sei andato lì per questo. Non dico sia impossibile altrove, per carità, ma forse l’India è il contesto tra i più favorevoli a questo incontro. Secondo Terzani, che visse gli ultimi tempi in eremitaggio, è il luogo dove tutto ebbe inizio”.
F.P: Namasté, il saluto tipico, tradotto in italiano significa “riconosco la divinità che è in te”. Com’è il rapporto con le divinità? Come convivono le diverse religioni monoteiste e politeiste? Sono sincretiche come in Cina oppure ogni credo è a sé?
A.O: “Domanda complessa, provo a dire che ogni essere vivente, donna, uomo, bambino, animale, pianta, ha il suo protettore e quindi il suo dio. Ed è una credenza forte che rende più sicuri di proiettarsi nel proprio presente. Perché non c’è ieri e non c’è domani, solo il qui e ora. Quanto al secondo tema, la mia risposta non può essere univoca. L’indole indiana è tipicamente tollerante, il sincretismo gandhiano ha seminato su questi prati fiori di convivenza devozionale, ma antichi attriti verso l’impero moghul e le politiche sovraniste indù del governo Modi, appena rieletto al terzo mandato, alimentano tensioni e discriminazioni verso i musulmani e, in minor misura, verso i cristiani. Il giovane vescovo di Jaipur è stato richiamato a Roma per ragioni di sicurezza e un anziano gesuita indiano, che proteggeva tribù indigene, è morto di Covid in prigione forse perché ricoverato in ritardo”.
Danzatore di Kathakali (fonte: Antonio Ortoleva)
F.P: A gennaio di quest’anno hai visitato il Kerala, dove importante è il ruolo sociale delle donne rispetto al resto del Paese. Quali sono le differenze?
A.O: “Il Kerala è un’altra India, la regione dell’estremo Sud dove le differenze sociali sono più attenuate, le povertà dignitose, costumi emancipati, cristiani e comunisti in maggioranza relativa: non è una società maschilista come altrove, le donne rivestono un ruolo di primo piano in famiglia e nella società. Le mamme possono passare il proprio cognome alla prole, la sindaca della capitale Trivandrum è una studentessa marxista eletta tre anni fa a 21 anni. Solo in Kerala ho notato ragazze da sole in strada a tarda sera o in spiaggia in costume a due pezzi. Non tutti sanno che le donne fanno il bagno in sari”
F.P: Com’è stata la tua esperienza in una clinica ayurvedica?
A.O: “Parliamo della terapia medica più antica del mondo e ancora oggi largamente praticata. Ho compreso con certezza che noi siamo ciò che mangiamo. Il benessere fisico e mentale, con l’ausilio di terapie naturali e di massaggi, lo raggiungi rinunciando anche ad abitudini che ritenevi sacre. Come al caffè appena sveglio”.
F.P: La società indiana è sempre stata stratificata e suddivisa in caste. Oggigiorno è ancora in vigore questo sistema? Gli intoccabili svolgono i lavori più umili; come sono visti dal resto della società? Con compassione, come insegna la dottrina buddhista, o con disprezzo? L’atteggiamento nei loro confronti dipende dal proprio credo?
A.O: “Formalmente, il sistema delle caste è stato abolito nel 1947 con l’indipendenza. Nei fatti sopravvive, soprattutto nelle zone rurali, perché insito nelle origini della tradizione induista. I dalit, cioè gli intoccabili, la casta “più bassa”, sono sì preposti ai mestieri più umili, ma eleggibili a cariche pubbliche. Un presidente di un parlamento regionale, secondo antiche usanze, dovrebbe sedere in terra e non nella sua poltrona, anche se ciò di fatto non accade. Quello delle caste è il buco nero del Paese, neppure Gandhi decise di abbatterlo con l’ultima spallata. Celebri invece le battaglie laiche contro quel sistema, condotte dalla scrittrice Arundhati Roy, i cui libri sono letti in tutto il mondo”.
F.P: Ogni buon indù desidera terminare i suoi giorni terreni a Varanasi, dove il concetto di morte è particolare. Com’è stato l’incontro con il padre di una ragazza defunta?
A.O: “A Varanasi, incrociai sul ghat delle pire umane il funerale di una ragazza e per caso mi ritrovai accanto al padre che esprimeva un contegno tranquillo. Osai, seppur con riguardo, e gli chiesi: “Ai funerali in Occidente vedrai dolore e sentirai anche piangere. Qui no, perché?”. Calmo e cortese rispose: “Non mi vedrai piangere perché so che mia figlia ha superato il ciclo del samsara della morte e rinascita e, tramite le acque del Gange a Varanasi, resterà nel suo paradiso”.
Puja sul Gange, città santa di Haridwar (Fonte: Antonio Ortoleva)
Così chiese, alle origini, Shiva a Vishnu e gli fu concesso, ecco perché solo in questa sponda si consumano centinaia di cremazioni ogni giorno. Arrivano via terra o fiume con la salma del parente o da moribondo, altri risiedono al Death Hotel, l’Hotel della Morte, in attesa di finire. C’è una sorta di racket delle cremazioni, chiedono “offerte” in base al reddito e sono salate, giovani schiavi rivestono i cadaveri sulle graticole con naturalezza e fatica. Ma nella città santa per eccellenza, sulla riva occidentale del Gange, tutto accade nel silenzio e nella misericordia divina”.
F.P: Raccontaci del sadhu o asceta che conosce il mondo restandone separato. Si può adottare questo stile di vita anche nella nostra quotidianità?
A.O: “I sadhu, spesso giovani e di buona famiglia, si ritirano in luoghi remoti per lunghi periodi o per sempre, dopo un apprendistato presso un maestro. Il loro connotato è la rinuncia alle comodità e ai beni del mondo, mettono alla prova le esigenze del corpo con pratiche che possono sembrare crudeli. Gli “stand up” vivono in piedi, riposano su una sorta di altalena con cuscinoni dove si appoggiano ma non si sdraiano mai. O i “runner”, corrono sempre fino a sera quando si fermeranno per mangiare e dormire. Li ho visti arrivare una volta durante il Kumbh Mela, la più grande festa religiosa, abiti colorati, dipinti in volto e la gente che correva intorno versando offerte nelle bisacce. Forniscono ai fedeli consigli e ammonimenti o medicine naturali potenti di cui sono depositari. Il loro stile di vita, no, da noi impossibile, ma il modello a non essere schiavi dei bisogni per il nostro quotidiano sarebbe un buon viatico”.
F.P: Cosa l’Italia può imparare dall’India e viceversa?
A.O: “Noi italiani potremmo imparare a rinunciare al superfluo, gli indiani ad amare e a praticare la dimensione dell’arte che, quando è alta, non può che essere vicina al cielo”.
Grazie, Antonio Ortoleva!
Fiori Picco
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