Dr.ssa Maria Teresa De Donato
Naturopata Tradizionale, Omeopata, Life Strategist, Autrice
La Ragazza di Sighet
- Da Auschwitz alla California: Una storia di speranza -
Intervista ad Aldo Villagrossi Crotti, Scrittore e Poeta
Questo mese proseguiamo con una seconda intervista ad un personaggio molto particolare ed altrettanto interessante che abbiamo conosciuto a maggio: Aldo Villagrossi Crotti, Scrittore e Poeta.
Nel nostro primo incontro, Aldo ed io abbiamo parlato in linea generale di molti aspetti della sua attività come scrittore e poeta, delle sue pubblicazioni e di alcune esperienze, piuttosto uniche, legate alla sua vita e al suo lavoro.
Oggi ci concentreremo su una delle sue opera, e precisamente su La ragazza di Sighet – Da Auschwitz alla California: Una storia di speranza (Edizioni Paoline, 2013), un libro che non solo merita di essere letto, ma che al momento sta facendo parlare molto di sé in vari ambienti.
T: Ciao Aldo e ben tornato. Felice di averti di nuovo sul mio blog.
A: Ciao Teresa! Guarda che io dall’ultima volta non me ne sono più andato dal tuo blog... comunque grazie per non avermi ancora espulso.
T: Prego. È un piacere. Insisto che tu rimanga. 😊
Aldo, nella nostra prima intervista abbiamo accennato a questo tuo lavoro… e, per coloro che non avessero avuto ancora l’opportunità di leggerci, vogliamo fare un breve riassunto per spiegare come da un semplice errore di battitura tu sia approdato alla pubblicazione di questo bellissimo libro.
A: Molto semplicemente, ho digitato il mio nome in Google invertendo due lettere: invece di ALDO VILLAGROSSI ho scritto ADOL VILLAGROSSI e Google mi ha suggerito “intendevi forse ADOLFO Villagrossi? Sapendo che Google non mi poteva proporre qualcosa che non fosse già in rete, ecco che preso dalla curiosità ho cliccato sul suggerimento, e Google mi ha rimandato ad una anteprima di un libro autopubblicato negli USA che mostrava per 30 minuti al giorno tre pagine random di questo libro. Guarda caso (ammesso che il caso esista) le tre pagine che stavo visualizzando parlavano di mio zio Adolfo Villagrossi. Ed era indiscutibilmente lui. Feci degli screenshot delle tre pagine e le tradussi, mandandole a mio padre per conferma. La risposta fu di conferma: era lui, ed era descritto benissimo. Alto, bello e con una fisarmonica a tracolla, soldato dell’Armir al confine fra Ungheria e Romania nel 1942. Era lui. E chi parlava di Adolfo era una signora ultraottantenne che aveva scritto questo libro a distanza di quasi 70 anni dai fatti, ricordando il nome di un soldato italiano che aveva cercato (invano) di salvarla dal campo di concentramento. Lei, Hindi (chiamata India da mio zio Adolfo), lo aveva descritto così bene che riconoscemmo immediatamente non solo il suo aspetto descritto nel libro, ma anche i suoi tratti caratteriali. Lei, Hindi, sopravvissuta al campo di concentramento, finisce su una nave che la porta a New York e in seguito in California, dove morirà il giorno dell’inizio della stampa del libro in Italia, che fu ritardata per poter aggiungere un mio ricordo di India/Hindi.
T: Per chi non avesse una conoscenza approfondita di luoghi, personaggi ed eventi legati all’olocausto, potresti fornire qualche dettaglio su chi fosse esattamente Elie Wiesel?
A: Elie Wiesel, premio Nobel per la pace nel 1986, giornalista, scrittore, saggista di origine rumena, nato a Sighetu Marmatiei il 30 Settembre 1928. Autore dello struggente romanzo “La notte”. Ma non posso dire altro, Wiesel è da conoscere senza che sia presentato più di tanto, si presenta da solo. Tornando a Sighetu Marmatiei, al tempo si chiamava Sighet ed era la stessa città dove Hindi/India e mio zio Adolfo si incontrarono. Qualcuno si chiederà se Elie Wiesel e Hindi si conoscessero. No, o meglio: si incontrarono un giorno in California alla fine di un convegno tenuto da Wiesel. Hindi lo avvicinò e gli chiese se avesse memoria quantomeno della famiglia di Hindi, i Friedman. Trovarono solo una conoscenza in comune, lo zio Szrul, che Hindi cita più volte nel libro. D’altro canto a Sighet gli ebrei erano 10.000 e ci sta anche che un ragazzo di 14 anni come era Wiesel non li conoscesse tutti.
T: A tuo avviso, la deportazione degli ebrei dalla città di Sighet, in Romania, al campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, fu in qualche modo diversa dalle altre? E se sì, perché?
A: Non nelle modalità, ma nei tempi, quello sì. L’Ungheria ebbe alcune esitazioni nel concedere ai tedeschi la deportazione degli ebrei – a mio avviso più per questioni di ricatto fra governi che non per una qualsivoglia remora da parte degli ungheresi – proprio perché, grazie al potente partito filonazista delle croci frecciate, godeva di una vasta ramificazione sul territorio in grado di “gestire” le deportazioni e i ghetti con facilità. Cosa che fecero, con un certo ritardo, anche a Sighet. La cosa successe nella primavera del 1944, e qui comincia il ballo dei numeri: c’è chi parla di 10.000 persone, chi di 15.000, chi addirittura di 32.000 persone deportate da Sighet e dai villaggi intorno a Sighet. La battaglia dei numeri dell’olocausto è la cosa peggiore che abbia mai vissuto sulla mia pelle. Sembra quasi che quei numeri abbiano la necessità di essere evidenziati, come se un numero alto debba colpire di più di uno basso, come se ci fosse una graduatoria fra olocausti. Sai, ci sono due cose dell’ebraismo che si prestano in queste occasioni, e forse è il motivo per cui gli ebrei non hanno mai voluto realmente dare un senso alle cifre: Secondo il Talmud, ogni generazione conosce 36 lamedvavnikim, ossia 36 uomini dalla cui condotta dipende il destino dell'umanità. Secondo la tradizione questi svolgerebbero lavori umili e verrebbero sostituiti dopo la morte con altri lamedvavnikim: questi eserciterebbero il loro potere quando su Israele incombe una minaccia, per poi scomparire dopo averla eliminata. Ecco, per un popolo che crede fermamente all’esistenza di soli 36 uomini umili in grado di salvare tutto il resto del mondo, non capisco per quale motivo dovrebbe fare differenza il numero di persone uccise nei campi di concentramento. Fossero stati anche solo 100.000, è una follia per l’intenzione al di là dei numeri. Poi, tornando al fatto dello sterminio, una cosa di cui si parla pochissimo è la reale motivazione per cui Adolf Hitler cerca di sterminare gli ebrei anche quando sa benissimo che la guerra è perduta per sempre: con lo sterminio degli ebrei Hitler tenta di unificare l’Europa sotto un unico ideale, quello dell’antisemitismo. E in questo, credimi, l’Europa era sostanzialmente d’accordo. E ancora oggi ne paghiamo pesantissime conseguenze, in tutti i sensi. Se non confessi le tue colpe vieni eroso dal rimorso, e noi europei ne subiamo le conseguenze da più di 70 anni. Ad ogni modo, alleati o meno che fossero, ognuno di questi paese si prodigò per rendere questa folle idea hitleriana una concreta realtà, compresi noi italiani che nel 1938 promulgammo le infamanti leggi razziali di Mussolini, ispirate a piene mani dai nazisti tedeschi e condivise da Mussolini grazie alle comuni ideologie con l’alleato Hitler, ideologie che consideravano gli ebrei oligarchi massoni che dominavano il mondo già da molti anni prima che Mussolini ed Hitler nascessero fisicamente. Hitler lo sapeva bene, e fu ben coadiuvato da tutti i paesi dai quali partirono le deportazioni. Gli ebrei sono accusati, da sempre, di essere gli uccisori di Cristo, in primis, poi di aver indicato una storia “alternativa” a quella raccontata dai Vangeli. A tutt’oggi ci sono delle parti del Talmud dove vengono omesse delle righe dove il lettore sa che, se lì ci fosse il testo omesso, si parlerebbe di cose che è meglio non scrivere mai più, ma che convenzionalmente stanno lì, due o tre righe vuote, a simboleggiare quello che si sa ma è meglio non dire. In una Europa cattolica e cristiana sarebbe stato facile raccogliere consensi in tal senso. Gli ebrei untori, strozzini, banchieri corrotti. Tutti stereotipi che ancora oggi vediamo uscire da penne illustri in tutto il mondo. L’Europa sapeva dei campi di concentramento, ma non fece nulla. Ed è una vergogna che ci portiamo dietro da più di 70 anni, e dalla quale difficilmente ci libereremo, almeno finché non si prosegue con questa aria di revisionismo a rate che rende la nostra coscienza impermeabile ad ogni sentimento umano nei confronti di ogni olocausto europeo.
T: Certo che – e sono completamente d’accordo con te su questo – focalizzarsi sulle cifre entrando quasi in competizione per dimostrare chi si sia avvicinato maggiormente al numero reale, non mi sembra solo assurdo, perché senza senso, ma a mio modesto avviso persino oltraggioso e folle. Mi fa pensare al detto biblico “Scolare il moscerino ed inghiottire il cammello.” Gli sforzi, da parte di noi tutti, nessuno escluso, dovrebbero essere indirizzati ad evitare che tragedie e vergogne simili non si ripetano mai più piuttosto che elaborare una classifica degli olocausti. Per quanto riguarda l’Europa che in linea generale fu unita nel partecipare all’olocausto o, comunque, non oppondendovisi fermamente, se ne resa complice, anche questa è una triste ed amara verità.
Nella sintesi del tuo libro viene affermato che Hindi, la protagonista, e sua sorella Relu passarono “drammaticamente nel maggio 1944 dai momenti spensierati della loro adolescenza alla deportazione nel campo di concentramento di Auschwitz, insieme ad altre diecimila persone, tutte appartenenti alla comunità di Sighet.”
Mi si accappona la pelle al solo pensiero… Una tragedia immane, una vergogna senza fine nella storia dell’Uomo, che non sarebbe mai dovuta accadere e che invece, purtroppo, è accaduta… Come è potuto succedere – molti tra noi ancora si chiedono – che più di 6 milioni di persone, prevalentemente ebree, perdessero la vita sotto gli occhi più o meno indifferenti del resto dell’Umanità… tragedia che, triste a dirsi, ha continuato, seppure con altri popoli e per ragioni diverse, a riprodursi fino ai nostri giorni?
A: La storia è tappezzata di olocausti. Questo, quello della seconda guerra mondiale, è quello che più ci salta all’occhio, ma non dimentichiamoci che le americhe furono conquistate grazie allo sterminio dei popoli che le abitavano, i quali non sappiamo nemmeno quanti erano perché mai si erano contati, e mai potremo saperlo. I 6 milioni potrebbero essere 8 come potrebbero essere 2. Nessuno lo sa con precisione, e finché si azzarderanno numeri ci sarà sempre quello che dirà: “Ah, secondo me non sono così tanti, sono solo 350.000”. E chi lo smentisce? I tedeschi tennero tutti i registri coadiuvati dalla IBM fino al giorno in cui fu chiaro che i russi erano alle porte, e a quel punto fecero sparire tutto. Per cui i 6 milioni sono un numero che, sinceramente, prendo per quello che è: un numero. A me quello che spaventa è che ancora oggi ci sia qualcuno che dà ragione ad Hitler.
T: Infatti. Quello è il vero problema: non imparare nulla dalla storia. E quando non si impara dai propri errori, questi, come sappiamo, sono destinati ad essere ripetuti. A questo riguardo, cosa rispondi ai cosiddetti “negazionisti dell’Olocausto”? Io rimango allibita.
A: Diciamo che negare l’olocausto è assolutamente ridicolo, ma come sempre, ogni teoria non è completamente insensata, altrimenti l’autore della teoria stessa verrebbe rinchiuso in manicomio il giorno dopo e addio teoria. Attenzione però: sai per quale motivo mi sono sempre rifiutato di andare ad Auschwitz? Perché quel luogo è stato trasformato in una sorta di Disneyland del dolore. Molti testimoni, compresa gente che ho conosciuto personalmente (anche Hindi, fra l’altro), dicono che i crematori di Auschwitz furono bombardati poco prima della liberazione e mai più ricostruiti. Quelli che oggi si vedono ad Auschwitz sono delle ricostruzioni, ma nessuno lo dice né lo scrive. Perché? Che motivo c’è di ricostruire l’orrore spacciandolo per autentico? Forse giova al turismo della zona? Beh, io a questo punto non ho dubbi, posso convivere lo stesso con questa mancanza: ad Auschwitz non ci andrò mai, ma non ho dubbi che in quel posto, in quel tempo, ci fu un luogo di sterminio. Mio nonno finì a Dachau. Non sono mai andato nemmeno lì. Mi sono bastati i suoi racconti, e so che posso credere a quello che mi raccontò lui stesso.
T: La cosa più straziante, dal mio punto di vista, è che tutto questo dolore, tutta questa sofferenza e la perdita di migliaia o addirittura milioni di vite umane potevano essere evitati. Cosa possiamo e avremmo già dovuto imparare per evitare tale tragedia ed in che modo La ragazza di Sighet può essere d’aiuto affinché orrori del genere restino, una volta e per tutte, solo esempi ammonitori della storia passata e non si ripetano più?
A: L’insegnamento di quel libro è uno ed uno solo: qualsiasi siano le condizioni in cui ti trovi, se lo vuoi, puoi ricostruire la tua vita partendo dalle sue stesse rovine.
T: Il che ci riporta al proverbio in lingua inglese: “What doesn’t kill you, makes you stronger” (Ciò che non ti uccide ti rende più forte), esperienza che molti di noi hanno vissuto sulla propria pelle, anche se non necessariamente sfuggendo ad un campo di concentramento. Ma è vero che, a prescindere dalle condizioni in cui siamo e dagli ostacoli che ci troviamo ad affrontare, è solo la forza interiore che può spingerci all’azione ed aiutarci a “rialzarci e a proseguire il cammino”, proprio come ha fatto Hindi/India.
Nel tuo libro, emerge se la protagonista o qualche altra vittima dell’olocausto e delle deportazioni da Sighet ad Auschwitz si fosse resa da subito conto di cosa stesse accadendo e di come sarebbe finito il tutto… o se fossero stati tutti colti, per così dire, da un fulmine a ciel sereno”?
A: Sembra che la consapevolezza l’abbia avuta ancor prima di loro, mio zio Adolfo, che scrive ad Hindi nel 1942 da Plojesti in Romania: “India, sono molto preoccupato per te. Ho già avvisato i miei genitori, qui trovi il loro indirizzo. Da questo momento non scrivere più a me ma scrivi a loro. Quando la guerra sarà finita verrò a sposarti.” L’intenzione di Adolfo era chiara: lui, ufficiale dell’anagrafe, aveva preparato il campo per accogliere al paesello la famiglia di Hindi. Laggiù, nell’assolata provincia mantovana, avrebbe cambiato i connotati ai Friedman i quali sarebbero diventati… non so, forse Frimatti o Bertolazzi come già aveva fatto con tanti altri. Lei non lo ascoltò e la cosa finì male. Il giorno stesso della deportazione, chiusi nei vagoni bestiame, teorizzavano su un possibile trasferimento in fattorie speciali. Avevano, purtroppo, tutti torto. Se ne accorsero solo giunti ad Auschwitz, dove le cose si palesarono subito per quello che erano veramente. Adolfo invece aveva visto i trasporti degli ebrei di Bucharest passare per Plojesti, e aveva capito che Sighet avrebbe fatto la stessa fine, e in quel “mucchio” sarebbe finita la sua amata India. Inaccettabile per un uomo che era vissuto in mezzo agli ebrei fin da bambino, persone che conosceva e stimava da sempre. Inaccettabile. Tornò a casa con la certezza che India si era salvata. Chissà perché. Aveva ragione, ma non la ritrovò mai più. Fu lei a ritrovare lui, per caso, grazie al nipote (il sottoscritto) ma lui era già morto da tempo. E lei lo aveva dato per morto nel 1943 sotto un bombardamento, chissà per quale strana ragione. Ai tempi non esistevano i cellulari. Comunicare non era semplice. Peccato.
T: Sì, peccato che le cose siano andate come sono andate… ma forse ci fu anche in quel caso un motivo che al momento non riusciamo ancora a vedere… Chissà, magari un giorno, in un’altra vita… ci verrà spiegato o lo capiremo e tutto avrà (forse) finalmente un senso.
Nella nostra intervista di maggio parlando di ‘autocritica’ hai affermato: “Proprio sull’autocritica ho qualcosa da dire: io sono terrificante da questo punto di vista nei confronti di me stesso, e tendo a giustificare tutto il resto del mondo. Mia moglie dice che se domani venisse Hitler, la figura che più mi ferisce a 360°, se venisse, dicevo, piangendo a chiedermi di aiutarlo probabilmente lo aiuterei. E temo che abbia ragione. E la poesia non è discriminatoria, di conseguenza io tendenzialmente con la poesia aiuto tutti coloro che la leggono, Hitler compreso.”
Come ti dissi in quell’occasione, questo è un aspetto bello ed altrettanto raro della natura umana che mi sarebbe piaciuto approfondire con te. Ne approfitto, quindi, in questa occasione. Le domande che, infatti, molti si pongono in casi come questo sono le seguenti:
1) Dopo aver vissuto una tragedia del genere, essere stati testimoni di atrocità indescrivibili… ed essere vivi per miracolo… si può realmente riuscire a perdonare e a scendere a patti con ciò che è stato?
2) E se sì, in che modo e fino a che punto?
A: Se Dio stesso ci insegna e ci dice di poter
perdonare, per quale motivo non potremmo farlo noi essendo noi stessi fatti a
sua immagine e somiglianza?
Io credo nel perdono. Spero sempre di poterne godere gli effetti su
di me in primis (sto scherzando), ma principalmente credo nel detto: le
strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. A volte
la coscienza umana si distorce a tal punto da non poter più distinguere il bene
dal male. E io non posso giudicare chi prende una strada sbagliata,
ma semmai indicargli quella che ritengo essere la retta via. Sempre
che sia nel giusto io stesso. Chi lo sa. Ma le religioni nascono per questo,
per cercare di dare una guida comune da seguire, non credi?
T: Sì, sono d’accordo anche se ci sarebbe molto da dire su questo argomento. Per quanto riguarda il perdono, benché a volte potrebbe essere difficile concederlo, noi tutti dovremmo, in effetti, essere in grado di perdonare o comunque di sviluppare la capacità di farlo. È interessante notare che, etimologicamente, il termine ‘per-donare’ rende l’idea del “dare in dono”, quindi è un incoraggiamento a non focalizzarci sul male che potremmo aver ricevuto o il torto che potrebbe esserci stato fatto. Questo, naturalmente, non significa affatto che quando perdoniamo noi dimentichiamo o giustifichiamo il male che è stato fatto, soprattutto se si tratta di qualcosa di grave. Al contrario, nel momento in cui riusciamo realmente a perdonare, noi ci alleggeriamo di un pesante fardello: il “carico” che stavamo trasportando e che consiste nella sofferenza, nel risentimento, nel dolore, e, a volte, anche nell’odio che potremmo aver provato per coloro che ci hanno fatto soffrire. Sentimenti negativi come quelli appena menzionati, sono in effetti energie deleterie, distruttive, che hanno ripercussioni su chi le prova, quindi sulla nostra salute a tutti i livelli – psichico, mentale, emotivo e persino fisico. Questo implica che se perdoniamo veramente… ne beneficiamo anche in quanto a salute… anche se non dovremmo farlo per questo motivo… ben inteso.
In questo ambito, mi viene in mente un altro aspetto… Nella Bibbia, libro considerato da molti quale ‘Ispirata Parola di Dio’, veniamo esortati ad odiare il male. È possibile, secondo te, odiare il male senza odiare chi lo pratica e mostra addirittura di godere della sofferenza inflitta agli altri? Come si fa a distinguere tra i due e a creare una netta divisione tra soggetto ed azione da lui/lei praticata?
A: Errore di traduzione: non è “odiare” il male, ma “ripudiare” il male.
T: Grazie per questa precisazione.
A: Prego. Il male è parte della nostra esistenza. Senza il male non esisterebbe il bene in quanto non ci sarebbe paragone di contrasto. “Sul cemento non nasce niente, sul letame nascono i fiori” diceva De André. I fiori sono belli e profumati, il letame molto meno. Senza letame i fiori non spuntano nemmeno dal terreno, e allora come la mettiamo? Il male bisogna conoscerlo e solo dopo averlo conosciuto si può ripudiare. Ed ecco spiegato il concetto di perdono in termini universali. Chi non ha conosciuto il male non può perdonare. Chi non capisce, guarisce, citazione talmudica. Le botti di vino inacidito che causano tanto dolore al suo proprietario salvo poi scoprire che l’aceto vale più del vino. Ti dirò di più: nel Vangelo viene scritto chiaramente, ma spesso male interpretato, che Giuda Iscariota, il traditore, nella realtà è parte di un disegno divino molto complesso. Un aspetto che fatichiamo molto a digerire, cioè che il male sia parte della comprensione del bene. Eppure Gesù Cristo, Yesu a Nosseri, un ebreo di Nazareth che dice tante cose interessanti ma di difficile interpretazione, in questo caso lo fa capire bene: “io so che tu mi tradirai, e so che tu mi ripudierai, so che tu non mi crederai, so che tu non mi sosterrai, ma muoio [e risorgo] per te”. Dunque, il male e il bene sono parte dello stesso disegno. Assolutamente indivisibili.
Concludendo: il male necessita della nostra comprensione. È un bisogno primario quello di comprendere il male. Se non fosse così, l’olocausto o lo sterminio delle popolazioni delle americhe precolombiane (per esempio) non avrebbero alcun senso teologico e la comprensione del disegno divino, già piuttosto nebbioso così come è, sarebbe quantomeno minato alla base. Se, d’altro canto, il risultato di tale comprensione è il perdono, io non mi scandalizzo proprio. Lo trovo piuttosto naturale e... umano ancor più che divino.
T: Infatti. Interessante argomentazione che richiederebbe un approfondimento, ma andremmo fuori tema… Tornando, quindi, al tuo libro… La Ragazza di Sighet è anche una storia d’Amore o sull’Amore?
A: È una storia che viene scritta NELL’AMORE. Quel libro è impregnato di amore, amore per quello che si è perduto, amore per quello che si è ritrovato, amore per quello che si sarebbe potuto avere, ma anche amore per quello che si è ottenuto dopo aver vissuto la follia e la miseria nera del campo di concentramento: IL RINNOVAMENTO. Ecco il vero senso dell’Amore, sapersi rinnovare continuamente. Amo perché ogni giorno il mio amore è nuovo amore. Pensaci.
T: Bellissima considerazione ed altrettanto vera. Sono contenta di come hai elaborato questo pensiero perché molto spesso quando si parla di Amore la gente pensa alla coppia. Ma l’Amore va ben oltre il rapporto di coppia: l’Amore è una forza dinamica, universale, creatrice e rinnovatrice. Ma qui mi fermo perché questo argomento è talmente vasto che richiederebbe molto tempo o quantomeno un’intervista a se stante.
Grazie Aldo per la tua partecipazione. Vogliamo ricordare ai lettori che volessero contattarti o ordinare il tuo libro in che modo possono farlo?
A: Certamente: il libro in Italiano si trova su Ebay abbastanza facilmente, mentre per la versione americana in inglese bisogna cercarlo con più attenzione sotto il nome de “The Girl from Sighet”. Se invece qualcuno lo volesse avere dalle mie manine e magari amorevolmente autografato, può chiedermelo direttamente al mio indirizzo di posta elettronica e (previo purtroppo pagamento di 17€ + spese postali, prezzo imposto dall’editore) glielo posso spedire se si trova lontano da Soncino, dove vivo, oppure se si trova dalle mie parti glielo posso portare personalmente in cambio di un buon caffé al posto delle spese di spedizione.
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