lunedì 6 giugno 2022

Gabriele Sorrentino: Telescopio temporale

Racconto pubblicato sull'antologia Finalmente un’azienda ha brevettato la macchina del tempo e cerca persone che vogliano testarla. Ti offri come volontario, del 2021.

Adrianopoli, 9 agosto 1131 ab Urbe condita

L’Augusto Flavio Giulio Valente rabbrividì. Dalle colline in direzione di Cabyle, sbucò la cavalleria dei barbari.
Goti, Alani e Unni piombarono sulla cavalleria romana che era avanzata sulla sinistra dello schieramento. Ringhiò ordini alla sua guardia, mentre la cavalleria rinculava sui fanti che resistevano. Squadroni di catafratti respinsero i Goti e avanzarono sin quasi al cerchio dei carri, mentre la fanteria pesante si mosse, infine, contro il nemico.
I catafratti avanzarono sul fianco sinistro, calpestando i Goti, sino a lambire i carri. La fanteria, però, si era infilata tra le colline su cui erano schierati i nemici, senza supportare l’avanzata catafratti che, fronteggiati dai cavalieri barbari, erano di nuovo isolati.
Le urla della guerra intorno a loro erano terribili. Una freccia colpì lo scudo di uno dei suoi scutarii.
«Siamo sconfitti.» Valente era un soldato e vide il disastro della sua armata con occhio distaccato. Isolati e attaccati da entrambi i lati, i catafratti e venivano massacrati dai nemici.
Passerò alla storia come l’Imperatore sconfitto dai Goti.
In lontananza, nel cielo, scorse un tremolio, come se l’aria stessa fremesse di tristezza per il disastro.
Fu allora che vide gli uccelli di fuoco e acciaio. Erano creature terribili che rombavano nel cielo con grida che potevano solo appartenere a diavoli. Il terrore atterrì lui e i suoi uomini, mentre l’imperatore si perse nel movimento ipnotico delle strane pale che ruotavano sopra gli uccelli.
A pensarci bene ricordavano più enormi cavallette verdastre che cominciarono a sputare fuoco dal cielo. I Goti caddero falcidiati da dardi che lui non poteva vedere, mentre il loro accampamento esplodeva sollevando colonne di fuoco e fumo nel cielo grigio.
Il rumore era terribile. L’Inferno era sceso dal Cielo.
Intorno a lui, i Goti morivano colpiti da una forza che non era umana.
Atterrito, Valente si inginocchiò e pregò come mai aveva fatto in vita sua.
 
L’esperimento, Nevada, Stati Uniti, 8 agosto 2025
 
Un piccolo passo per l’uomo. Così aveva pensato Livia Bianchi quando era entrata nel progetto. Un grande passo per l’umanità. Aprire le porte del tempo, poter studiare la storia da vicino, senza interferire. Ascoltare una filippica di Cicerone, essere presente sul Calvario. Livia, un dottorato in storia romana all’Università di Roma e un Master in Public History all’Università di Modena, aveva risposto all’annuncio con speranza. In Italia non riusciva a lavorare facendo ciò che le piaceva, in Nevada avrebbe potuto vivere del mestiere di storica. Inoltre, avrebbe finalmente potuto vedere, non solo ricostruire gli avvenimenti del passato.
Con tenacia aveva superato le durissime selezioni che l’avevano portata, in quel caldo pomeriggio di agosto in Nevada, nella base militare che ospitava il progetto Telescopio Temporale.
Una macchina del tempo. Non proprio, per la verità. L’apparecchiatura creava un corridoio schermato nello spazio-tempo, quasi una sorta di lungo cannocchiale che consentiva di osservare il passato. Come funzionava la macchina, lei non lo sapeva. Le avevano solo detto che consumava la stessa energia di una piccola città.
«Livia, vieni qui. È meraviglioso.» Calton era un giovane paleografo del Nebraska e insieme avevano legato subito. Livia si avvicinò al grande schermo tridimensionale che riempiva la parete del loro laboratorio, quasi un kilometro sotto il deserto del Nevada. Lo schermo era concavo e dava l’impressione di essere nel luogo e nel tempo che il cannocchiale stava osservando in quel momento. Intorno a loro vi era la luminescenza smeraldina dei campi di contenimento. Sembrava davvero di trovarsi all’interno di un cono verde: alle loro spalle c’erano i computer e i poderosi generatori a idrogeno, di fronte a loro vi era Roma. La Curia del Senato. Le Idi di Marzo del 44 a.C.
«Loro ci vedono?» domandò. Ally, il capo del controllo missione per l’epoca antica sorrise. Era una bella ragazza dagli occhi azzurri e in capelli bronzei.
«No, dottoressa Bianchi. Quelli più attenti possono percepire al massimo un tremolio nell’aria, come quando si osserva in lontananza l’asfalto, in una torrida giornata estiva. Non possono vederci e soprattutto non possono udirci. Non possiamo interferire, state tranquilli. Te l’ho già spiegato, nessuno di noi potrà lasciare il Grande almanacco sportivo al vecchio Biff, come in Ritorno al Futuro Parte Seconda
Come fanno a esserne sicuri, se non sono mai andati dall’altra parte?
Il disagio di quella domanda durò un istante: vide i senatori circondare Cesare e un uomo tarchiato, che lei sapeva essere Cimbro Tillio, afferrargli la toga alle spalle. Cesare gridò. Aveva una voce meno secca di come lei si era immaginata. 
«Ma questa è violenza bell’e buona!» protestò il dittatore. Un altro congiurato, che si chiamava Casca, lo colpì sotto la gola. Cesare lottò. Afferrò Casca per il braccio, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Circondato, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia.
«Stai riprendendo?» domandò a Calton, che annuì. Utilizzava il cellulare, tanto avevano scoperto che anche le videocamere più evolute riuscivano solo a registrare ombre sbiadite e voci lontane.
«Svetonio aveva ragione.» mormorò Calton.
«Vuole morire con dignità, coprendo la parte inferiore del corpo coperta» confermò lei.
Il silenzio calò nella sala controllo. Stavano assistendo a uno degli eventi più importanti della storia antica. Livia sentì le lacrime ruscellare sulle gote.
 
Più tardi, nel suo alloggio, Livia sistemò i propri appunti e chiuse il laptop. Il ruolo degli storici nel progetto era quello di certificare che il telescopio temporale vedesse davvero il momento storico dichiarato. In cambio loro avevano la possibilità di riscrivere completamente i libri di storia di tutto il mondo. La tecnologia, ovviamente, era ancora top secret e i risultati delle loro osservazioni non potevano essere divulgate. Da mesi, i tecnici cercavano un sistema per registrare e le immagini che il telescopio mostrava, per documentare in modo inconfutabile ciò che loro  vedevano.
A quel punto avrebbero potuto utilizzare il brevetto per diversi scopi commerciali e culturali. Livia sapeva che il progetto aveva una divisione Storia e Arte, una divisione Biologia e Medicina, una divisione Architettura. Scoprire i segreti dell’antichità avrebbe potuto far progredire l’epoca moderna più velocemente.
 
Il dect suonò. Laggiù, sottoterra, i cellulari non funzionavano. I dipendenti, quindi, erano dotati di cordless. Guardò il numero, era il controllo missione.
«Dottoressa Bianchi, volevo comunicarle che domani osserveremo la battaglia di Adrianopoli» la voce del generale Stenton era cavernosa. Stenton era l’ufficiale di collegamento tra la base, gestita e protetta dai militari e gli scienziati civili. Era nato in Arizona, aveva due baffi di foggia arcaica, dei quali andava molto orgoglioso.
«Avevo capito che ci saremmo occupati dell’ascesa di Ottaviano dopo la morte di Cesare» protestò lei.
«Abbiamo ordini dall’alto. Questa è un’istallazione militare e i miei capi vogliono soddisfare la loro curiosità. Vogliono capire perché i romani persero contro i barbari. Dobbiamo dimostrare al Congresso che i miliardi di dollari che stiamo spendendo servono a insegnarci gli errori del passato per non ripeterli.»
Avevano fatto quella conversazione molte volte. Il generale era un uomo illuminato, ma prendeva ordini, come tutti.
«Non credo possa funzionare così,» protestò lei «cosa può interessare ai militari capire gli errori di Valente. Voi avete gli elicotteri e i satelliti.»
«Se quella battaglia fosse andata diversamente, forse l’Impero romano sarebbe sopravvissuto.» Stenton era uno storico dilettante, molto entusiasta. «Si tratta di uno snodo decisivo, importante come Pearl Harbor oppure come lo Sbarco in Normandia.»
«Non so se l’Impero sarebbe sopravvissuto. Troppe forze lo ostacolavano.»
«Ha ragione. È stata lei, però, a dirmi che ad Adrianopoli entrò in crisi la capacità romana di assimilare i barbari.»
«È vero» ammise lei. Ricordava quella conversazione. Stenton era un uomo affascinante. «È una corrente storiografica che io sostengo. A seguito di quella sconfitta i Romani dovettero accettare un insediamento massiccio di Goti che, in un contesto già compromesso da decenni di guerre civili, ebbe un impatto demografico devastante sul lungo periodo.»
«Fermando Adrianopoli, quindi, forse l’Impero sarebbe sopravvissuto. Un po’ quello che accade agli alleati a Dunkerque: la fuga salvò l’armata britannica e la guerra. Ci sono questi snodi, nella storia» si ostinò lui.
«Può essere.» Era stanca e non aveva voglia di discutere. 
«Non l’affascina un’Europa senza medioevo.» Stenton era un idealista.
«Il medioevo è stata l’epoca che ci ha forgiato come siamo.»
«Un unico Impero, con una sola lingua, un solo Ecumene. Affascinante, non trova?»
«Va bene» tagliò corto lei. Non amava quelle discussioni ucroniche. La storia era costituita da fatti, non da maldestre ricostruzioni a posteriori. «Mi ripasso le fasi della battaglia. Non sono una storica militare.»
«A domani.»
Ottusi burocrati.
 
Come spesso le capitava quando rimaneva sola, Livia pensò al progetto che stava contribuendo a creare. Sapeva che la ricerca storica, architettonica e biologica era solo una delle motivazioni che aveva spinto i militari a quel poderoso investimento. Non era un’ingenua. Era, però, convinta che le loro scoperte avrebbero reso migliore la comprensione della storia. In futuro sarebbe stato possibile costruire viaggi virtuali nel passato, portare studenti e visitatori sui luoghi della storia. Una vera rivoluzione.
Quel giorno avremo davvero la public history, una storia per il grande pubblico raccontata dagli stessi protagonisti.
Quell’aspetto di intrattenimento giustificava gli investimenti privati, ma era piuttosto dubbiosa sui vantaggi militari di osservare gli eventi del passato.
Cosa vogliono i militari?
Turbata, si alzò e scese nella sala comune. A quell’ora pochi dipendenti affollavano il bar, piuttosto fornito. La base era già stata sigillata e le sentinelle impedivano a chiunque di uscire o entrare.
Trovò Ally seduta a un tavolo. Davanti a lei vi erano due boccali vuoti di birra e un terzo pieno per metà.
«Ciao Livia, come mai ancora alzata?»
«Potrei dire lo stesso di te.» Sorrise lei, sedendosi.
«Sai che sono una nottambula.»
«In verità cercavo te.»
«Lo temevo» sogghignò Ally. «Ancora il dubbio sulle interferenze?» Portò il boccale alle labbra e bevve con eleganza.
Livia ordinò una birra al cameriere che si era avvicinato. «Non proprio. Sai che una delle possibili applicazioni di questa tecnologia è mostrare al pubblico direttamente ciò che accadde in un determinato momento.» Ally annuì.
«È ciò che gli investitori privati sperano. Creare dei cinema storici, esperienze irripetibili.»
«Esatto. Vi siete interrogati sui danni alle schermature che possono essere generati dalla continua esposizione di un evento storico al telescopio temporale? Immagino che gli eventi più famosi saranno i più gettonati.»
Ally rifletté alcuni istanti. «Non ho tutte le competenze fisiche e di meccanica quantistica per risponderti. Io so come funziona la macchina solo in modo superficiale. Il motore non lo conosco in ogni dettaglio. So che la macchina crea una sorta di tunnel protetto da pareti di spazio-tempo, una sorta di campo magnetico temporale. So che questo campo magnetico quando è attivo isola la base da tutto il ciò che esiste intorno. Ogni volta che noi ci colleghiamo, le nostre vite si congelano per così dire per il tempo del collegamento. Se ci colleghiamo dieci minuti, ad esempio, allora guadagniamo dieci minuti nel nostro orologio biologico. Il dipartimento medico-biologico studia proprio questi aspetti.»
Livia aveva già avuto quelle informazioni quando era stata arruolata. «Questa potrebbe essere un’altra applicazione pratica.»  Commentò.
«Hai ragione. Pensa quanta gente spenderebbe migliaia di dollari per guadagnare un’ora o due di vita, riuscendo anche a divertirsi. Diciamo che le implicazioni etiche di questa tecnologia sono ancora tutte da verificare.»
«Lo immagino. La mia domanda, però, è più pratica e mi assilla da stamattina. Come fate a sapere che dall’altra parte, le persone che osserviamo non ci vedono?»
Ally sospirò. «Livia, siete proprio curiosi, voi Italiani. Non è un’informazione classificata,  comunque. Siamo riusciti a mandare di là piccoli droni in foggia di insetti, che hanno registrato dati e ce li hanno inviati. I dati riescono a tornare indietro, ma noi non possiamo comunicare con i droni. La sezione biologica del progetto si occupa di questo. Serve per verificare com’era l’aria, cercare eventualmente virus da noi scomparsi per studiare vaccini. Insomma, altre interessanti applicazioni.»
«Vedi? Avevo ragione io. In futuro rischiamo di poter modificare gli eventi!» Quella scoperta la stordì. Il cameriere portò la birra, lei pagò e ne bevve un’ampia sorsata.
«Ti sbagli. Riusciamo a mandare dall’altra parte solo oggetti molto piccoli. Ciò che mandiamo di là non può tornare indietro. Non credo quindi che molti vorranno andarsene laggiù a modificare eventi.» Le sorrise. «Inoltre, nessuno dei soggetti osservati ha mai manifestato una reazione alla vista dei droni. Come sai, infine, non riusciamo ad andare in un’epoca posteriore al XVI secolo. Per questo motivo i nostri nonni e bisnonni sono al sicuro da eventuali abusi.» Tentò di dare un tono faceto alla sua risposta, ma Livia rimase turbata.
«Sarà come dici tu» Livia bevve un altro sorso di birra. «Questa tecnologia, però, è davvero pericolosa in prospettiva.»
«Tutte le tecnologie possono esserlo. L’importante è il modo in cui vengono usate.»
 
Quando la mattina dopo Livia entrò in sala controllo, era tesa. La rivelazione di Ally era stata per lei scioccante. La donna le aveva parlato liberamente, come se quella notizia fosse del tutto normale.
Non sanno cosa stanno maneggiando.
«Siamo pronti per il collegamento.» Ally sorrise e Calton si preparò a riprendere ciò che vedevano con lo smartphone..
Il ronzio dei motori della base si alzò di intensità e lo schermo nero cominciò ad animarsi di puntini sempre più fitti, fino a quando l’immagine, un po’ sfocata, cominciò a materializzarsi e ad assumere fisicità.
La piana di Adrianopoli era davanti a loro, Romani e Goti si scannavano in una mischia terribile.
«Cerchiamo l’imperatore» ordinò lei. La figura di Valente l’aveva sempre affascinata, un uomo coraggioso e cocciuto che aveva pagato a caro prezzo i suoi errori.
I tecnici agirono sul telescopio e la scena ondeggiò, rapsodica alla ricerca dell’Augusto che combatteva circondato dai soldati della sua schola palatina.
«Cosa succede?» Ally parlò con voce tesa all’auricolare. «Ho un picco di energia non previsto.» Qualcuno le rispose e lei scosse la testa, le labbra contratte in una espressione di rabbia. «Dovevate avvertirmi di questo esperimento.» Poi si rivolse loro.
«Vi chiedo di fare alcuni passi indietro. Vogliono sperimentare una nuova videocamera che dovrebbe riuscire a farci avere immagini nitide. Siccome questo aumenterà l’energia impiegata sul telescopio non vorrei che ci fosse qualche danno alla struttura.»
Livia trasalì. Non amava le sorprese. Era una ricercatrice: la ricerca storica era lenta e rassicurante.
Fu allora che lo schermo si spense, piombarono nell’oscurità.
«Cosa succede?!» la voce di Ally era lontana. «Violazione di sicurezza.» Luci rosse cominciarono a roteare nel laboratorio, accompagnate dall’ossessivo urlare degli allarmi. «Chi ha dato l’ordine di deviare il flusso di particelle? Non abbiamo mai orientato il telescopio fuori dalla base. Oddio! È impossibile! Nulla di così grosso può passare! I campi di contenimento imploderanno.»
Il mondo intorno a Livia esplose. E lei e si trovò a stringere la mano di Calton. Livia inciampò e cadde all’interno del perimetro del telescopio. La mano del giovane paleografo, stretta nella sua, divenne leggera.
Intorno a lei, tutto, divenne freddo e scuro.
 
Ecumene, 9 agosto 2778 ab Urbe condita
 
Livia tossì, al buio.
Cosa è successo?
Tutto intorno a lei, la base era crollata, si trovava immersa nei detriti. Stringeva qualcosa nella mano. Nell’oscurità tastò e urlò. Scaraventò lontano la mano di Calton, mozzata all’altezza del polso.
Si alzò. Era tutta di un pezzo e sporca di calcinacci. Aveva la testa pesante, come dopo un mostruoso fuso orario.
Al buio.
Terrorizzata, cercò il cellulare. Lo teneva sempre con sé anche se laggiù il segnale era assente. La faceva sentire in contatto col mondo. Si aggrappò alla luminescenza dello schermo per non impazzire nel buio. Attivò la torcia: la luce dello smartphone illuminò i contorni del laboratorio devastato. Vi erano cadaveri ovunque, corpi maciullati, volti terrorizzati e irriconoscibili. Solo il perimetro del telescopio era integro, per quanto le pareti di cemento, prive della luce verdastra dei campi di contenimento, fossero innervate da crepe.
Si alzò in piedi e vacillò. Lottò per non rigettare la colazione. Livia si mosse a fatica tra i detriti. Nella base crollata, fuori dall’area del Telescopio, non vi erano esseri umani. Anche le apparecchiature sembravano indistinte, come gli sfondi di quei videogiochi anni Novanta, bidimensionali e irrealistici.
Implosi.
Conosceva la strada che, per fortuna, non era interrotta. Risalì in superficie e godette dell’abbraccio del deserto. L’accolse una notte tersa, nel cielo c’erano troppe stelle. Molte erano basse, sembrava che i satelliti artificiali in orbita intorno alla terra fossero aumentati in poche ore. Intorno a lei non vi erano costruzioni, ma solo il deserto e una strada sterrata.
Vacillò quando vide le lune.
Una era quella che lei amava, quella che aveva ispirato poeti e illuminate le notti dei navigatori.
L’altra era artificiale. Lo percepì anche se sembrava molto simile alla prima. Fu allora che scorse i soldati. Marciavano nella notte e lei non tentò di fuggire. Era troppo stanca per farlo.
Erano coperti da un’armatura integrale, di un metallo insolito, che sembrava adattarsi alla luce della notte. I caschi, però, erano inconfondibili e così il mantello che svolazzava sulle spalle di quello che sembrava il capo. Sul suo elmo troneggiava una cresta rossa trasversale. Anche l’uomo che portava il vessillo con l’Aquila era inconfondibile.
Una legione romana.
O, meglio, la sua versione futuribile che sembrava uscita da uno di quei giochi da nerd che amava molto suo fratello.
Il centurione, le venne naturale chiamarlo così, si tolse l’elmo e la osservò. A Livia ricordò una statua di marmo e non le fu difficile immaginare decine di interventi di chirurgia plastica di altissimo livello su quel volto quasi privo di imperfezioni.
Quando l’uomo parlò, la calma, che si era imposta al suo risveglio, andò in frantumi e lei si trovò a piangere da sola nella notte. Lottò per non cadere in ginocchio e per mantenere una certa dignità davanti a quel soldato sconosciuto.
Ave domina.
L’uomo parlò in latino. O, meglio, la lingua che parlava stava al latino classico come l’italiano moderno stava ai testi di Boccaccio e Dante Alighieri. Non comprese tutte le parole, ma colse il senso.
«Mia Signora, l’Imperatore dei Romani, signore dell’Ecumene, ti attende. Sono venuto a portarti da lui.»
Esausta, Livia, annuì. Con cordiale durezza, i soldati la scortarono a un grosso mezzo aereo, una sorta di evoluzione di un elicottero. La fecero sedere nell’ampio vano trasporto truppe. Non la legarono, ma era evidente che non le avrebbero permesso di scendere da quel volo.
 
Viaggiarono nella notte su un mondo che aveva tutte le caratteristiche di una civiltà moderna. Le luci delle città scorrevano sotto di loro, Livia notò che erano simili a quelle che ricordava, ma diverse, più fitte in certi punti, più rade in altre.
«Quella laggiù è Nova Eboracum» indicò il centurione. «Qui faremo rifornimento.»
Nuova Eboracum. New York.
Il senso di irrealtà era terribile. «Quanto è esteso l’Ecumene?» Domandò cercando di ricordare la giusta pronuncia latina.
«Parli in modo arcaico, Domina. Eravamo stati avvisati di questo. L’Ecumene rende civile l’intero pianeta e le nostre colonie sono estese in tutto il sistema solare.»
Livia trasalì.
Come è possibile?
Un’idea terribile galleggiò sulle increspature della sua stanca coscienza. «Cosa è successo ad Adrianopoli?» domandò, temendo la risposta.
«La vittoria di Adrianopoli ha segnato un nuovo inizio. Il Magister Militum Stenton aiutò Valente a rifondare l’Impero dei Romani. Egli aveva Dio dalla sua parte e i suoi angeli di acciaio. Alla morte di Valente, Stenton riunificò l’Impero e fondò il nuovo Ecumene.». Pronunciò il nome del generale con uno strano accento. Era evidente che la lingua inglese era sconosciuta in quel mondo.
Stenton.
Lentamente, Livia capì. il generale era riuscito a portare delle armi moderne ad Adrianopoli, e aveva cambiato la storia. Stento aveva prodotto il mondo dove si trovava lei.
Livia era sconvolta da quella follia. Quel mondo non aveva conosciuto il medioevo, il rinascimento, l’illuminismo e il romanticismo. Quel mondo non era più il suo.
Nuova Eboracum fu tutto sommato una delusione. Nella notte, il loro veicolo si ancorò a una specie di alta torre sulla foce di quello che, nel quando di Livia, si chiamava Hudson. Il profilo di quella che nel suo mondo era Manhattan era ben riconoscibile, plasmato dalle luci della città. Eppure, intorno vi era il buio di foreste e campi coltivati, un paesaggio decisamente rurale. L’America di quel mondo era decisamente meno popolata di quanto non fosse stata l’originale.
«Perché l’Imperatore vuole vedermi?» domandò d’un tratto. «Come sapeva che ero in quella base?»
«Lui è il Pontefice Massimo, custode delle nostre tradizioni. Non sapevamo chi avremmo trovato, solo di dover cercare. Abbiamo trovato te.»
Stenton sapeva che qualcuno avrebbe potuto sopravvivere alla base.
Avrà lasciato qualche scritto profetico ai suoi successori. Perché?
 
Il velivolo lasciò le luci della terra ferma e sorvolò la macchia scura dell’oceano. Livia si rendeva conto che andavano molto più veloci di qualsiasi aereo lei avesse mai preso. Quando albeggiò si concesse uno sguardo sul quel mare dai flutti color piombo, una delle poche cose familiari in quello che non era più il suo mondo.
«Ecco l’Ammiraglia. Pronti per le manovre di atterraggio.» Livia aveva sperato che l’incontro si svolgesse a Roma – era curiosa di vedere l’Urbe di quel mondo, dominatrice dell’intero sistema solare - invece notò la flotta di una quindicina di navi che incrociava in pieno oceano. Erano navi da guerra armate sino ai denti, di una forma allungata e aliena ma che incutevano timore. Il loro velivolo scese sul lungo ponte di una portaerei, sulla quale garriva l’aquila imperiale a due teste.
Quello stemma non è romano, è medievale.
Registrò l’anacronismo e pensò che lo avesse scelto Stenton. Il generale aveva una conoscenza imprecisa e mainstream dei dettagli della storia. Sogghignò, sotto lo sguardo gelido del centurione.
L’aeromobile toccò il ponte senza singulti, con dolcezza. La fecero scendere e la accompagnarono tra due ali di soldati schierati che la osservavano dietro gli elmi integrali.
«L’Imperatore ti aspetta.» Un uomo distinto che indossava una tunica di tessuto tecnico l’accompagnò nei meandri della nave sino a una porta dominata dallo stemma dell’aquila bicefala.
La fece entrare e la lasciò sola. L’uomo dietro la grossa scrivania dominata dall’aquila le sorrise dietro baffi molto curari.
«Benvenuta nell’Ecumene, dottoressa Bianchi» sorrise. Il volto era strano, sembrava una maschera. L’Imperatore sfiorò un comando sul grande collare dorato che reggeva il mantello porpora e il volto trasfigurò, mostrando lineamenti che lei conosceva. L’uomo di fronte a lei era più vecchio di quello che ricordava, ma non vi erano dubbi sulla sua identità.
Era Stenton.
Livia vacillò. Era troppo stanca e cadde in ginocchio, in lacrime. «Come è possibile?»
«Nemmeno io lo so con certezza» Stenton le si avvicinò e la aiutò ad alzarsi e a sedersi su una comoda poltrona che aderì perfettamente alla sua schiena. «I militari cercavano un modo per tornare nel passato ed eliminare i nemici dell’America prima che fossero una minaccia. Erano convinti che uccidere Hitler, Bin Laden o gli attentatori del World Trade Center prima che commettessero i loro crimini sarebbe stato un modo per salvaguardare la nostra sicurezza.»
«È una follia.»
«Anche io lo pensavo. Ma i ho assecondati. Io volevo impedire che l’Impero Romano cadesse. Ho studiato la storia per anni, e mi sono reso conto che quell’Impero avrebbe fermato, in embrione, i nemici che oggi ancora insidiano l’Occidente.»
Lo sguardo di Stenton vagava da una parte all’altra della stanza, reso folle dal suo delirio di onnipotenza.
«Lei ha sempre voluto cambiare la storia.» Lo accusò Livia.
«Ho voluto migliorarla» corresse lui. «Io e i miei uomini eravamo disposti a non tornare indietro, a rinunciare a tutto, morire nel passato convinti comunque dell’importanza della nostra storia. Avremmo insegnato ai Romani a costruire le nostre armi, la loro grandezza avrebbe fatto il resto.»
La lucidità di Stenton era spaventosa. «Poi cosa è successo?»
«In verità non lo so. Non era un risultato atteso. Sembra che i campi di contenimento abbiano congelato la mia esistenza. Io e i miei uomini siamo punti fissi nel tempo. Abbiamo dovuto fingere molte volte la nostra morte in questi secoli, ma il risultato è ottimo. Il mondo è un posto migliore.»
Livia lo guardò, allibita. «Ha sovvertito le leggi di Dio e della natura.»
«Ho reso l’esistenza dell’uomo migliore.»
«Perché mi ha cercato? Teme che possa raccontare a tutti cosa ho fatto?»
Stenton ridacchiò e lei avvampò di rabbia. «Dottoressa Bianchi, non offenda la sua intelligenza. Nessuno le crederebbe. Non sapevo chi avrei trovato vivo, ma oggi è il giorno in cui, nella realtà da cui io e lei veniamo, è accaduto tutto. Dovevo verificare se qualcuno era rimasto in vita. Sono felice che sia lei.»
«Cosa gliene importa?»
«Che lei lo accetti o no, siamo uguali. Non so come mai lei è la sola sopravvissuta, ma questo conferma che anche lei è bloccata in questa sorta di fessura nel tempo. Un punto fisso come me e i miei uomini.»
«Sono caduta nel telescopio.» Livia raccontò di essere precipitata in mezzo ai campi di contenimento che stavano implodendo. «Forse per questo motivo mi sono salvata.»
«Lo credo anche io. Anzi, lo spero. È proprio ciò di cui ho bisogno.»
«Non capisco.»
«Sto morendo.» Ammise l’Imperatore. «Tutti i miei compagni sono perduti, ormai. Evidentemente il campo di forza che mi ha preservato sta cedendo. È cominciato l’anno scorso. Man mano che ci avvicinavamo all’8 agosto 2025, il campo si indeboliva. Ormai resto solo io e sono già invecchiato di molti anni in pochi mesi.» Stenton si alzò e le si avvicinò. Livia si ritrasse d’istinto. Quell’uomo la spaventava.
«Ha paura di morire. Temo di non poterla aiutare.» Tentò di canzonarlo. La sua voce, però, uscì rocca e strozzata. Si accorse di tremare.
Stenton sogghignò. «Lei proprio non capisce. Dopo millesettecento anni, non ho paura di morire, anzi. Ho paura che l’Impero che ho creato non sopravviva alla mia morte. L’Ecumene è forte ma il potere attrae le gelosie e la corruzione. Mi sono reso conto di questo, in tutti questi anni. All’uomo serve una guida forte.»
«Io cosa c’entro?». Degluttì. Improvvisamente sentì il bisogno di bere.
«Lei è stata fissata nel tempo oggi. Per lei non è partito un conto alla rovescia millesettecento anni fa. Non ne sono certo ma potrei scommettere che lei rimarrà viva e immutata per molti secoli da adesso. La guida che serve all’Ecumene.»
Sogghignò e Livia venne afferrata alle caviglie da due ganasce emerse dal pavimento. Stenton la colpì con un ago e il torpore l’avvolse.
 
Quando si svegliò era in una capsula coperta da un vetro, in quello che le pareva un hangar. Intorno a lei vi erano altre capsule con all’interno militari che sembravano addormentati. L’uniforme era quella delle truppe americane.
I compagni di Stenton. Cos’è questo posto?
L’imperatore era lì e osservava tutto con uno sguardo folle sul viso asciutto.
«Ora, dottoressa, come hanno già fatto i miei compagni, lei mi darà qualche altro secolo di vita. Siamo punti fissati nel tempo, ma la mia schermatura temporale sta implodendo, ora lei mi offrirà la sua. Per l’Ecumene!»
Livia trasalì. «Cosa ne sarà di me?»
«Non credo che sognerà. Si addormenterà con la consapevolezza di aver contribuito alla grandezza dell’Impero.»
Mentre Stenton armeggiava con i controlli, Livia pensò a Cesare e tentò di concentrarsi sulla sua morte dignitosa.

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Sono nato a Modena il 14 maggio 1976. 
Da sempre, invento storielle e racconti. Fortunatamente i miei primi “obbrobri”, scritti con una pesantissima Olivetti dall’inchiostro sbiadito, sono stati ingurgitati da svariati traslochi. 
Poi ho composto i racconti più “seri” che costituiscono la base ideologica e stilistica per quelli che sto pubblicando in cartaceo e sui vari blog. Scrivo soprattutto racconti di genere (noir, fantasy, horror, fantascientifici), ma anche a sfondo storico. Giusto per darvi un’idea, i miei autori culto sono Poe, H.P.Lovecraft, Tolkien, Dick e Asimov. Altri autori che amo molto sono Manfredi, Follett, e King.
Col Laboratorio di scrittura XOMEGAP ho partecipato a diversi progetti di scrittura collettiva e a belle esperienze di corsi di scrittura, anche con i ragazzi delle elementari e delle medie. Faccio parte anche dell’Associazione di scrittori I Semi Neri di Modena.
Amo non solo scrivere racconti e storie, ma anche narrare la Storia, quella con la “s” maiuscola. Sono laureato in Scienze Politiche – indirizzo storico politico, amo la storia, in particolare la mia passione va alla storia medievale alla quale ho dedicato la tesi dal titolo “La Nascita dell’Aristocrazia nell’Italia Medievale”.
Sono pubblicista. Ho collaborato con le pagine della cultura della Gazzetta di Modena e oggi collaboro con le riviste “Modena Storia” e “Il Ducato – Terre Estensi” editi da Terra e Identità per la quale ho scritto anche diversi saggi storici su Modena. Attualmente mi occupo di comunicazione per un Ente Pubblico. Mi piace sperimentare, ho scritto anche poesie e tra i miei sogni c’è quello di scrivere testi per canzoni.
Sono cattolico, modenese e fiero di esserlo, anche se le mie radici campane affiorano spesso.
Sono diventato Publi Historian, portando a termine nell’anno accademico 2015-2016 il Master di II secondo livello organizzato da UNIMORE. La Public History è una professione nata una ventina di anni fa negli Stati Uniti con l’obiettivo di portare la storia fuori dall’accademia. La mia tesi si intitola Giocare il Risorgimento: un approccio di Public History ai moti di modenesi del 1831.

http://www.gabrielesorrentino.it/

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